Scheda
55 [TAv.
XXVI] [Inv]: 101/V Domenico Scattola, 1814-1876 Scena di genere olio su
tela, cm 60x75 firmato: «D° SCATTOLA». Calibrata
con astuzia sui registri di un sentimentalismo aneddotico, tra la cronaca
di costume e un bozzettismo didascalico cui manca peraltro ogni volontà
di denuncia sociale, la pittura di Domenico Scattola, veronese trasferito
a Milano dal 1840 circa, si spartisce col goriziano Antonio Rotta e il
veneziano Guglielmo Stella una sorta di monopolio nella pittura di genere
fra gli anni Quaranta e Sessanta, con regolari e massicce presenze alle
esposizioni accademiche e un vasto successo, anche commerciale, presso
una committenza molto composita. Con questa pittura di straordinaria versatilità
tematica, che si misurerà pure nel repertorio storico e sacro, fu una
delle presenze più assidue e popolari anche alle mostre veronesi, dove
viene immancabilmente riconosciuto come un eroe locale, celebrato a Milano
come «il Goldoni della pittura», di affermata fama europea, e i commenti
della critica inneggiano - come E. Biraghi, dalle pagine della «Gazzetta
di Verona» - all'artista «sommo, e quasi inarrivabile nei quadri che presentano
le più commoventi scene domestiche». In questa pittura, volutamente d'effetto,
si arriva invece a riconoscere una valenza ideologica e un’autentica «lezione
morale, [che] tratteggia con alto intendimento, con arguzia talora, e
sempre con vera filosofia la vita del popolo». Ed è vero, dei resto, che
le tematiche di questa sua produzione di genere, fortemente correlata
a quella dei fratelli Induno, che in alcuni casi sembra precorrere, contribuirono
pur nella loro superficialità ai primi incerti tentativi a Verona di aggiornamento
in direzione di un verismo latamente sociale benché ancora lontano a definirsi.
Gli esordi veronesi avevano seguito in realtà un percorso tutto accademico,
come allievo di Lorenzo Muttoni e Carlo Zusi, che giustifica la sua prima
attrazione nell'orbita di Hayez, una volta passato a Milano, e con un’attività
che le presenze alle esposizioni tra il 1835 e il 1839 documentano in
prevalenza ritrattistica. Il dipinto in esame è emblematico della produzione
più nota di Scattola, che trova tramiti psicologici immediati nell'insistere
su una facile vena narrativa. La possibilità di identificarlo con quello
esposto alla mostra braidense del 1857 coi titolo La sorella maggiore
che fa le veci della madre, e commentato in quell'anno da Matteo Gatta
nelle Gemme d’Arte, verrebbe a collocarlo cronologicamente a ridosso dell'apice
di un percorso segnato dal crescente favore di un pubblico di cui sa stimolare
il rassicurante sentimentalismo con una pittura di affetti familiari,
e che gli meriterà dagli anni Sessanta i riconoscimenti ufficiali e le
nomine nella commissione permanente di Brera, di socio onorario dell'Accademia
veronese e, nel 1864, dell'Istituto di Belle Arti di Urbino. Pur non documentato
alle esposizioni della veronese Società di Belle Arti, il dipinto si rivela
perfettamente in linea col gusto collezionistico di Carlo Alessandri,
tra i principali promotori dei sodalizio e già in possesso di un quadro
di Scattola con un episodio del Nicolò de Lapi, (forse lo stesso citato
e illustrato da Tommasi 1986), che lo conservava nel proprio studio e
con il cui lascito è poi pervenuto alla sua sede attuale. L’artista vi
si rivela abilissimo nel toccare tutte le corde del patetismo dolciastro
nella scelta tematica, cui sa unire peraltro dei momenti di indiscussa
qualità pittorica nei virtuosismi della resa luministica, dal tremulo
bagliore della candela ai riflessi lucenti del paiolo, e nel brano di
natura morta composto con cura sul tavolo. G.M. |
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